La mia banda suona il rock

Alcuni nostri scatti

Alcuni scatti rubati negli anni

Jesus in concerto

Da sinistra, Cocai il bassista e Roial l'organista

la Stella Rossa del Kinotto in concerto. Sullo stage Jesus e Drugo

Jesus in concerto

Da sx Cocai, Drugo e Jesus

Arezzo Wave Love Festival 2019

Nel 2006, il Molise era un buco dimenticato da Dio, un posto dove anche le capre si annoiavano. Non c’era un cazzo da fare se non bestemmiare contro il vento e aspettare che qualcosa, qualsiasi cosa, succedesse. In quel deserto di stimoli, nacque La Stella

Non per scelta, ma per disperazione. E forse per qualche birra di troppo.

Io mi chiamo Roial, e suonavo le tastiere come se dovessi evocare demoni dall’aldilà. E forse

lo facevo davvero, visti gli effetti. La band era un casino organizzato: Paolo Colagrossi alla

chitarra ritmica, Gianluca Vergalito alla solista, due ego che avrebbero potuto far crollare un

palazzo solo col volume. Cocai al basso, un tipo silenzioso con l’aria di uno che aveva visto

l’inferno e ci aveva lasciato una cartolina. Armin Siros alla batteria, il nostro metronomo

epilettico. E infine Jesus Blanco III, il cantante: un nome da predicatore, ma l’attitudine da

barbone ubriaco. Un animale da palco con una voce che sembrava uscita da una rissa tra Dio

e Satana.

Ma nessuno di noi avrebbe combinato un cazzo se non fosse stato per Giuseppe “Gisus”

Bianchi. Gisus era un ex musicista fallito, un filosofo della perversione, un santone che

predicava sesso, droga e dannazione eterna come se fossero le uniche verità rimaste nel

mondo. Lui ci ha educati. Non con le parole, ma con l’esempio. Le prime prove della band si

facevano nel suo garage, un antro puzzolente di sudore, birra e sogni frantumati.

È lì che sono nate le prime due canzoni: “Astolfo” e “Soldato del Destino”. “Astolfo” era

ispirata a una notte in cui, completamente fatti, leggemmo l’Orlando Furioso e decidemmo

che il viaggio sulla luna era una metafora perfetta della fuga dal Molise. “Soldato del

Destino” era il nostro inno tragico, il lamento disperato di chi sa che finirà male, ma

continua a marciare.

Suonavamo ovunque ci lasciassero. Una volta abbiamo aperto per un gruppo punk in un

centro sociale occupato. Ci pagarono con tre birre calde e una sigaretta spenta. Ma a noi

andava bene. Ogni concerto era una guerra. Ogni palco un campo minato. Ogni applauso una

dose.

Vivevamo alla giornata. Alcuni giorni erano magnifici. Altri sembravano scritti da Kafka

sotto acido. Ma ogni momento era vero. Crudo. Senza filtro. Il nostro pubblico ci amava

perché eravamo sporchi, onesti e rumorosi. E forse anche perché avevamo uno che si

chiamava Jesus Blanco III.

Gisus ci diceva: “Non vi serve talento. Vi serve fame.” E noi avevamo fame. Fame di palco, di amplificatori rotti, di recensioni su blog sfigati, di groupies ubriache e sogni tossici.

Fu così che cominciammo a scrivere. A registrare. A sbagliare. A litigare. A scopare. A creare

un’identità. Un suono che era nostro e di nessun altro. Non eravamo i migliori, ma eravamo i

più incazzati. E in un mondo anemico, essere incazzati è già abbastanza per essere ricordati.

La Stella Rossa del Kinotto non è nata in un laboratorio. È nata in un garage puzzolente del

Molise. È nata tra una bestemmia e una birra. E forse, a pensarci bene, è proprio per questo

che ha funzionato. Perché era vera.

E noi eravamo vivi. Sporchi, sbagliati, ma vivi. E pronti a farci sentire.